Avrei voluto scrivere un altro articolo, stavolta.
Avrei voluto raccontare della mia trasferta a Bologna, dei chilometri percorsi con il cuore pieno di passione, delle emozioni vissute sugli spalti.
Avrei voluto parlare del gol di Anguissa, della gioia esplosa in quel primo tempo in cui il Napoli sembrava finalmente ritrovarsi, delle piccole conferme di una squadra che, ancora in lotta per lo scudetto, ha mostrato lampi di sé.
E sì, anche delle difficoltà del secondo tempo, in cui il Napoli è tornato a spegnersi, rischiando di brutto e lasciando punti pesanti per strada.
Ma niente.
Ancora una volta, non si può parlare di calcio.
Perché quello che succede fuori dal campo sembra sempre più forte, più invadente, più scandalosamente ingiusto.
Perché ancora una volta, si parla di “violenza” e di repressione. E come troppo spesso accade, a pagarne le conseguenze non sono solo i presunti pochissimi colpevoli, ma anche e soprattutto gli innocenti. Quelli che ci credono. Quelli che ci mettono la faccia, il cuore, i soldi, il tempo.
Mi chiamo Ferdinando, vivo a Bergamo da oltre dieci anni, ma sono nato e cresciuto a Napoli . La mia residenza è ancora lì, per ragioni familiari e affettive.
E sono, da sempre, tifoso del Napoli. Uno di quelli che lo segue ovunque, che si organizza con giorni di anticipo, che si emoziona per una coreografia, che canta anche quando si perde.
Domenica ero a Bologna. C’ero davvero. Ho visto, ho vissuto. E oggi, mentre leggo che si va verso l’ennesimo divieto di trasferta per i residenti in Campania, mi sento preso in giro, umiliato, discriminato.
Non tutti siamo uguali, e non tutti meritiamo la stessa condanna
I fatti sono noti: disordini fuori dallo stadio, un agente ferito, momenti di forte tensione. Nessuno li nega, e nessuno li giustifica.
Ma ancora una volta, invece di colpire chi ha sbagliato, si sta preparando una sanzione collettiva, indiscriminata, crudele.
Solo perché la mia carta d’identità dice “Napoli”, verrò trattato come un delinquente, indipendentemente da chi sono davvero.
Non conta che io viva al Nord, che sia incensurato, che sia un tifoso corretto.
Contano solo le generalizzazioni, che fanno comodo a chi non ha voglia di distinguere, di approfondire, di fare giustizia vera.
Avrei voluto raccontare della mia trasferta a Bologna, dei chilometri percorsi con il cuore pieno di passione, delle emozioni vissute sugli spalti.
Avrei voluto parlare del gol di Anguissa, della gioia esplosa in quel primo tempo in cui il Napoli sembrava finalmente ritrovarsi, delle piccole conferme di una squadra che, ancora in lotta per lo scudetto, ha mostrato lampi di sé.
E sì, anche delle difficoltà del secondo tempo, in cui il Napoli è tornato a spegnersi, rischiando di brutto e lasciando punti pesanti per strada.
Ma niente.
Ancora una volta, non si può parlare di calcio.
Perché quello che succede fuori dal campo sembra sempre più forte, più invadente, più scandalosamente ingiusto.
Perché ancora una volta, si parla di “violenza” e di repressione. E come troppo spesso accade, a pagarne le conseguenze non sono solo i presunti pochissimi colpevoli, ma anche e soprattutto gli innocenti. Quelli che ci credono. Quelli che ci mettono la faccia, il cuore, i soldi, il tempo.
Mi chiamo Ferdinando, vivo a Bergamo da oltre dieci anni, ma sono nato e cresciuto a Napoli . La mia residenza è ancora lì, per ragioni familiari e affettive.
E sono, da sempre, tifoso del Napoli. Uno di quelli che lo segue ovunque, che si organizza con giorni di anticipo, che si emoziona per una coreografia, che canta anche quando si perde.
Domenica ero a Bologna. C’ero davvero. Ho visto, ho vissuto. E oggi, mentre leggo che si va verso l’ennesimo divieto di trasferta per i residenti in Campania, mi sento preso in giro, umiliato, discriminato.
Non tutti siamo uguali, e non tutti meritiamo la stessa condanna
I fatti sono noti: disordini fuori dallo stadio, un agente ferito, momenti di forte tensione. Nessuno li nega, e nessuno li giustifica.
Ma ancora una volta, invece di colpire chi ha sbagliato, si sta preparando una sanzione collettiva, indiscriminata, crudele.
Solo perché la mia carta d’identità dice “Napoli”, verrò trattato come un delinquente, indipendentemente da chi sono davvero.
Non conta che io viva al Nord, che sia incensurato, che sia un tifoso corretto.
Contano solo le generalizzazioni, che fanno comodo a chi non ha voglia di distinguere, di approfondire, di fare giustizia vera.
Io c’ero a Bologna. E difendo gli ultras
Non solo c’ero. Ma conosco chi era lì, conosco l’ambiente, conosco la gente che ogni settimana spende soldi e tempo per stare vicino al Napoli.
Sì, anche gli ultras, quelli che vengono sempre citati come “i cattivi”. Ma non è così. Gli ultras veri, quelli che ho visto io, sono passione, sono spirito, sono identità.
Difendo chi tifa con il cuore, chi organizza trasferte, chi canta per 90 minuti.
Condanno chi approfitta del calcio per sfogare rabbia e violenza. Ma non si può equiparare chi sostiene con chi distrugge.
Parliamoci chiaro: non tutto è andato storto per caso.
A Bologna ho visto una gestione dell’ordine pubblico superficiale, se non provocatoria. I tifosi del Napoli sono stati ammassati tutti insieme, lasciati in attesa, con la scusa che “i tornelli non funzionano”.
File infinite, caldo, tensione. Nessuna informazione chiara. Nessun filtro.
E mi chiedo: si voleva davvero gestire in sicurezza o si voleva creare disagio?
Non voglio insinuare nulla, ma ho ascoltato molte testimonianze, anche da parte di ragazzi ultras tranquilli, che dicono chiaramente: “Si poteva fare molto meglio. Sembrava quasi si volesse provocare.”
È troppo facile, poi, puntare il dito solo contro i tifosi. Ma se chi ha il dovere di prevenire e organizzare fallisce clamorosamente, non possiamo far finta di niente.
L’ordine pubblico si pianifica, non si improvvisa. E soprattutto non si gestisce a caso sperando che qualcuno sbotti per poi avere un capro espiatorio.
Oggi in tv e sui giornali ci riempiono la testa con il racconto dei “cattivi russi”. Sono i nemici per eccellenza, i repressivi, gli autoritari. Eppure in Russia, per quanto quel sistema sia criticabile, la violenza negli stadi è sotto controllo. Perché lì, chi sbaglia paga. Subito, sul serio. Da noi, invece, si parla tanto e si agisce poco. Si vietano trasferte, si colpiscono tutti, e i veri colpevoli spesso escono puliti. Poi c’è l’Inghilterra, dove negli anni ‘80 c’era la vera guerra negli stadi. Hanno cambiato tutto. Hanno costruito stadi nuovi, investito nella cultura sportiva, punito i singoli, non le curve intere.
Oggi in Premier puoi portare i bambini allo stadio senza paura.
Perché lì hanno capito che la soluzione non è reprimere in massa, ma educare e colpire chi sbaglia davvero.
"Punirne cento per educarne uno" non è giustizia. È tirannia
Il principio che sembra guidare ormai questo governo è chiaro e inquietante:
“Puniamoli tutti, così imparano.”
Un principio che non ha nulla di democratico, che viola la Costituzione e che si ispira più a certi regimi totalitari che a un Paese civile. Colpire migliaia di innocenti per "dare l'esempio" è una barbarie.
È la logica della Cina autoritaria, non dell’Italia repubblicana.
Io non smetterò mai di tifare Napoli. Anche se mi rendono tutto più difficile.
Ma chiedo rispetto. Chiedo che si torni alla ragionevolezza. Che si giudichi l’individuo, non la massa.
Chiedo che la mia residenza a Napoli non sia più un marchio d’infamia.
Chiedo che chi ama il calcio venga tutelato, non sospettato.
Perché io, Ferdinando, che vivo a Bergamo, che lavoro onestamente, che pago biglietti e trasferte,
non sono un problema. Sono un tifoso. E ne ho piene le tasche di essere trattato come un reato ambulante.
IO NON CI STO!
Articolo di :
Ferdinando Grimaldi
Ferdinando Grimaldi
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